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- Novembre 06, 2018
Oggi, in momento di disorientamento per lo stato della Capitale di sospensione tra degrado incipiente e di immagine di “caput mundi in crisi”, conviene ricordare stagione unica di due decenni fa, di segno opposto, intrisa di ottimismo, di stati d’animo aggressivi e idee in incubazione condivise da un gruppo di politici ed amministratori, coesi e complementari nella loro diversità. Della prima Consiliatura di Rutelli si è oggi quasi dimenticato il grande patrimonio di idee, che invece va ripreso, studiato, rilanciato. Va consegnato ad una nuova generazione perché la Capitale riconquisti la sua dignità (e normalità). Pur nella critica degli errori fatti, vanno riproposte idee e cose fatte: un indubbio capitale “costituente”, tecnico culturale e politico, necessario per non accettare l’attuale progressiva regressione. Vi era un clima speciale: grandi entusiasmi per essere partecipi di un momento che si sentiva “storico” per la città. Inizialmente, senza ruoli istituzionali, nella grande aula dell’assessorato all’Urbanistica a via Petroselli ci si trovava insieme, tutti in piedi, architetti, docenti, politici, a discutere davanti ad una grande mappa appesa al muro, quasi con lo stesso spirito di scoperta che si aveva nel ’68 a Valle Giulia, quando ci si confrontava senza pudori sulle grandi scelte della politica nazionale ed internazionale.
Tra le principali ipotesi sul “che fare” da rimettere al centro dell’attenzione per il rinnovo della Capitale, c’era la questione fondamentale della riqualificazione dello spazio pubblico di Roma, già espresse prima del voto su Rutelli nel libro “Roma che ne facciamo”, di Walter Tocci (Editori Riuniti1993). Rutelli, tra 94 e 95, presentò il Programma 100 piazze alla grande assemblea alla fiera di Roma all’Eur, indicando i due coordinatori (Francesco Ghio che affiancava Cecchini per l’urbanistica, e il sottoscritto per la mobilità, con Tocci). Era un clima “costituente” anche agitato: con Ghio nelle riunioni animate in Campidoglio si discuteva vivacemente sulle scelte da farsi per come aprire la stagione di progetti per il suo spazio pubblico per Roma. Si posero subito le due questioni di organizzazione e di sostanza. La nostra struttura amministrativa doveva essere trasversale rispetto ai Dipartimenti; doveva integrare le diverse missioni e responsabilità: l’ufficio centopiazze diretto da Miriam Valentini, con Francesco Ghio ed io come consulenti e un’unica regia degli assessori coinvolti (Cecchini, Tocci, Montino, Minnelli), fu messo presso il gabinetto del sindaco, connesso a tutti gli uffici interessati, i lavori pubblici (Michele Civita), l’ufficio giardini (Stefano Mastrangelo) e, al VII dipartimento (Mobilità), l’ufficio per il programma urbano parcheggi (PUP), diretto da Carlo Maltese.
L’ufficio 100 piazze fu in effetti un gesto rivoluzionario (per questo non proseguito adeguatamente) di “progress moltiplicativo” del riordino dello spazio pubblico, per incrementare la qualità urbana e la rigenerazione di 100 quartieri. Si poneva un “ripensamento civico” concettuale e operativo della città: riconoscere le potenzialità presenti nell’assetto fisico, con un metodo di rigenerazione che fosse anche “ridisegno della macchina amministrativa” con nuove relazioni tra assessorati, dipartimenti, in dialogo coi cittadini, con tutte le competenze professionali e dell’Università. Il dialogo Comune / quartieri era innanzitutto “visione”: rinnovo dei modi di pensare la città per una sua riappropriazione da parte dei cittadini, con sistematico riconoscimento dei luoghi collettivi.
Per dare un segnale forte di “coinvolgimento” (dei municipi) della città si lanciò il Concorso 100 piazze per venti progetti esemplari, uno per ogni municipio, per “innestare” un prototipo esemplare di piazza in ogni Municipio, come prima pietra della riqualificazione.
Lo strumento di sostenibilità era il PUP che aveva il compito di compito di generare risorse coi parcheggi interrati e liberare strade e piazze dalle auto in sosta , spostandole nel sottosuolo; sopra ed accanto ai parcheggi interrati si realizzavano le “opere superficiali” dello spazio pubblico, riqualificando il suolo urbano pedonale. Era una manovra finanziaria di creazione di un vantaggio collettivo comune dl suolo pedonalizzato, con vantaggi individuali degli acquirenti dei box auto, che si articolava in tre punti: 1 il progetto del sottosuolo (parcheggi e sotto-servizi), 2 il progetto del suolo (valorizzare le attività di interesse collettivo), 3 il progetto finanziario (incentivare risorse disponibili e potenziali, con convenienze pubblico privato).
Lo strumento per la progettazione era l’Università: i due dipartimenti, Itaca (diretto dal prof. Paris) e Architettura e Analisi della città (con i prof. Panella, Terranova, Portoghesi, Angeletti) non dovevano essere solo strutture della ricerca, ma anche incubatori di giovani progettisti, gli studenti. In un laboratorio sperimentale erano una formidabile forza lavoro, fresca, economica, per sondare tutte le potenzialità che la città aveva in serbo, testando lo spazio pubblico con soluzioni innovative, da discutere in ogni quartiere, per trovare soluzioni condivise, per “educare la committenza collettiva” verso obiettivi insperati, latenti.
A 100piazze e al PUP furono dedicate apposite pubblicazioni del Comune, che diedero ampio spazio a queste linee programmatiche: in “Roma per Roma” n. 1 (giugno 1996) con introduzione di Tocci ; nel n. 2 di “100Piazze (luglio 1197) con i risultati del concorso.
Erano pubblicazioni disinvolte ed aggressive: fascicoli a grande formato 30 x 40 (una esagerazione). La “Cento Piazze” serie di novembre 1996 (n. 1), luglio ’97 (n. 2) era diretta da Paolo Gentiloni, con coordinamento di Luana Brasili, Michele Civita, Francesco Ghio, e Miriam Valentini (direttore dell’ufficio 100 piazze), con la partecipazione dei diversi dipartimenti (Ambiente, Commercio, Lavori pubblici, Mobilità, territorio (assessori De Petris, Minnelli, Montino, Tocci, Cecchini). La pubblicazione “Roma per Roma” giugno 1996 (n. 0) era periodico del Dipartimento Mobilità.
Più operativa era la raccolta di fascicoli dei “Piani d’ambito” (ed. Palombi) del Dipartimento VII. Nella pubblicazione dell’ottobre del 2001 è dedicata ai Piani d’ambito, il mio articolo introduttivo è intitolato: “tra manuali e piani d’ambito urbano; la gestione dello spazio collettivo”; è articolato in tre punti: 1 “marginalità o centralità dello spazio pubblico”. 2 ”biografia di un’ipotesi di lavoro per cento piazze di riqualificazione”. 3 “Otto regole sullo spazio pubblico”.
Scrivevo: “il programma 100 piazze pone il tema della qualità urbana della sua “rigenerazione” in un progressivo ripensamento concettuale e operativo: che fosse il riconoscimento delle potenzialità presenti dell’assetto fisico di Roma, che fosse la messa a punto di un metodo, sia di ridisegno della macchina amministrativa (con nuove relazioni tra assessorati, dipartimenti, comune centrale e Circoscrizioni o Municipi, sia dialogo con i cittadini da coinvolgere, raccordando competenze professionali interne ed esterne, Comune e Università, Comune e giovani progettisti, Comune e quartieri. Si cominciò allora ad immaginare un grande movimento di trasformazione, innanzitutto dei modi di pensare e quindi modi di attuare una “riappropriazione della città” da parte dei cittadini. Se si ripercorrono i programmi di lavoro, i diagrammi metodologici e tematici su Roma, è evidente il tentativo di una impostazione sistematica. Tutto ciò si è praticato nel primo mandato in un clima seminariale e sperimentale. il metodo di una nuova prassi nuova cultura amministrativo sulle ipotesi avviate dopo la generale quel progetto totale sul Roma seguito in tanti procedimenti attuativi in singole sedi amministrative”.
Rileggendolo, trovo evidenti le contraddizioni tra l’ampiezza delle problematiche di rilancio amministrativo e ideativo e la fragilità della macchina allestita in forma provvisoria negli uffici dell’Amministrazione e la poca consistenza di una “nuova tradizione” di azioni sulla città. Tanto è vero, che poi in poco tempo si sono visti interrompere i processi organizzativi ed elaborativi e, alla fine, tutto è stato messo nel dimenticatoio. E dubito che ci sia un archivio che protegga i documenti dei lavori fatti. Le Pubblicazioni dimostrano l’acerbità e l’improvvisazione della prima fase con un ottimismo del neofita che si lancia in un campo non ben definito. Parimenti, girando per alcune piazza realizzate, non trovo opere del tutto convincenti. I progetti e le realizzazioni dimostrano di non avere avuto una maturazione progettuale adeguata, né raggiunto una qualità sperimentata e garantita delle costruzioni.
L’approccio dei progettisti nei concorsi denota l’insoddisfatto bisogno di operare nella realizzazione (sporcarsi le mani di calce), così difficile nella penuria delle occasioni offerte: “finalmente” potevano essere messi alla prova di una realizzazione concreta. Molti esagerarono nell’enfasi. Non poterono coltivare il necessario minimalismo e adattamento ai contesti. L’approccio degli uffici fu anch’esso condizionato dal non aver vissuto una fase di consolidamento: non erano strutture attrezzate, con una missione chiara e, soprattutto, rispettata dal comune sentire dell’insieme dell’Amministrazione comunale.
Ma resta un patrimonio di idee e programmi tuttora valido, da condividere in un rinnovato programma rigenerativo di Roma.
- Dossier Roma