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- Dicembre 07, 2018
L’Europa. Voglio l’Europa. Vogliamo l’Europa. Lo dicono in tanti. Pure Salvini. Pure gli ungheresi, i polacchi, gli austriaci. Ma l’Europa non è uguale per tutti e l’Europa che vogliono i tanti movimenti sovranisti che si rifanno a un vecchio concetto di nazione è una Europa che non capisco. Per me l’Europa è una realtà già bella e fatta. Lo so che non è così, ma io con l’Europa ci sono cresciuta, ci sto dentro, è casa mia. L’ho sempre vissuta come una cosa sola, unica, speciale, intera. Mai sentita veramente italiana, io. Un pò napoletana, certo, perché è là che sono nata ed è là che ho passato le vacanze dalla nonna al mare, e un pò romana perché è a Roma che ho vissuto e vivo, ho studiato, mi sono sposata, ho lavorato e ho cresciuto i figli. Italiana, però, no. Chissà se perché il nostro Risorgimento mi è sempre apparso storto: Garibaldi era un repubblicano ma quando prende il Sud strappandolo ai Borboni lo deve dare al re Savoia che fa l’Italia come monarchia. Una stranezza che mi ha inquietato a lungo.
Invece europea sì, mi ci sono sentita sempre. A cominciare dal cognome, il mio cognome, che finisce con la ipsilon di York perché mio nonno era francese, anzi era mezzo francese, solo mezzo, mentre l’altra metà era tedesca. Sua madre, però, non viveva in Germania ma a Odessa, in Ucraina e là aveva conosciuto il mio bisnonno. Lui si chiamava Joseph, Joseph Robiony, lei Madeleine Münse, con i due puntini sulla u, von Taffenbrun. Lui veniva da Nizza, ma Nizza non s’è mai capito bene se è più Francia o più Italia, dove suo padre aveva una grossa ditta di mobili con cui era diventato ricco, molto ricco, al punto da possedere una villa sulla Promenade des Anglais.
Lei veniva da una famiglia che con le navi trasportava grano dall’Ucraina, allora definita Il granaio d’Europa. Lui era sposato con una francese da cui aveva avuto un paio di figli, lei era sposata con un italiano che era console ad Odessa e non aveva figli. Lui era di religione cattolica, lei luterana, ma sua madre che si chiamava Schumaker, ovvero calzolaio, era ebrea. Il doppio matrimonio, di lui e di lei, non impedì ai due di innamorarsi, fare tre figli maschi e trasferirsi a Napoli con il marito di lei, ormai socio d’affari di lui. La storia finì in una tragedia: lui investì male i suoi soldi, fece fallimento e si suicidò lasciando lei con i tre bambini e uno scandalo familiare sulle spalle. Prima di morire, comunque, aveva voluto che i suoi tre figli portassero il suo cognome e non quello italiano del marito di lei come fino a quel momento era stato: operazione difficile, allora, perché non solo non c’era il divorzio, ma non c’era neanche né il test del DNA né alcuna tutela per i figli illegittimi.
Comunque c’era riuscito e i tre costituirono il primo nucleo di Robiony con cittadinanza italiana: il più grande era avvocato, Giuseppe, e restò a Napoli come mio nonno Andrea che era notaio, quello di mezzo, Emilio, andò, invece, a Perugia ad insegnare storia. Il loro incubo era che questo benedetto cognome, acquisito in maniera illegale, potesse essergli tolto dalla famiglia legittima del padre rimasta a Nizza: non fu così, ma il timore di questa vergogna fu come una ombra nera sulla loro esistenza. Quando mio padre raccontò questa storia a me e a mio fratello ragazzi noi ne sorridemmo: il divorzio non c’era ancora da noi ma i tempi erano diversi da quelli dei miei nonni e a noi apparve solo una vicenda molto romantica.
Sarà per questo che mi sono sentita sempre europea? No, non solo. Certo è che tra tutti i nipoti sono quella che più somiglia alla bisnonna Madeleine tanto da aver avuto io in eredità la sua fotografia originale e che solo quando mi sono trovata in un gruppo di ragazze tedesche, finalmente, non mi sono sentita fuori posto: spalle larghe, fisico imponente, pelle piena di lentiggini, capelli castani con riflessi rossicci. Non ho mai avuto niente a che vedere con le italiane dell’epoca mia, più minute, più basse, spesso brune, con grandi occhi e nessun problema di scottature quando si stendevano al sole.
E che dire di mia figlia, bionda con pelle bianchissima e occhi azzurri enormi, talmente nordica da esser scambiata più volte per una di loro? Quando, una volta, fui inutilmente spedita dal giornale a Punta Ala per tentare di intervistare il regista russo Tarkovski già malatissimo, mi portai dietro mia figlia certa che l’intervista non l’avrei mai avuta. Venne ad aprire la porta la moglie del regista che nel vedere mia figlia rimase per un attimo muta per la sorpresa: aveva la sua stessa faccia con trenta anni di meno. Non è stato solo questo, però. Anche la scuola ci parlava di Europa, allora. Alle elementari , dalla terza classe in avanti, ogni anno ci davano un tema sull’Europa unita, elogiando i vantaggi che ci avrebbe portato quella nuova realtà sognata da Altiero Spinelli, Eugenio Colorni Ernesto Rossi nel confino di Ventotene, più una donna Ursula Hirshman, prima moglie di Colorni poi di Spinelli, che avventurosamente fa uscire dall’isola il manifesto scritto dai tre.
Una realtà messa in atto poi da politici come Schuman, De Gasperi, Adenauer, spinta da un ideologo come Jean Monnet che molto deve lavorare per convincere i francesi che quella è una buona idea, una idea che porta pace dopo infinite guerre e l’inutile strage del secolo breve contraddistinto da due conflitti mondiali. Un percorso lungo e accidentato che parte nel 1943 a Milano a casa di Alberto Rollier, si rafforza a Parigi nel 45 con la Conferenza Federalista Europa, prosegue nel 1967 con il trattato di Roma che segna la nascita della CEE, la Comunità Economica Europea, si struttura nel 1979 con il suo primo parlamento dove Spinelli resterà dieci anni, infine con Maastricht e gli accordi di Schengen fa cadere le ultime barriere per la circolazione di noi europei. Mai più passaporti, dogane, controlli ma la totale libertà di girare per i paesi della nostra Europa, trovare casa e mettersi a lavorare dove più ci piace, fare figli che nascono e vivono da cittadini europei.
Io ci ho creduto e ci credo tuttora. Nel 1951 era nata la CECA, la comunità del carbone e dell’acciaio, il primo nucleo economico dell’Europa, cui poco dopo successe la Euratom, per mettere in comune le applicazioni civili dell’energia atomica e questi piccoli passi, a me bambina, parevano un cammino segnato, certo, certissimo, indubitabile. In più c’era mio padre che, tra i molti ruoli ricoperti, aveva anche quello di lavorare a Ginevra, dove andava di tanto in tanto, per parlare di lavoro e sicurezza nella sede delle Nazioni Unite e dove aveva stretto amicizia con altri europei che svolgevano compiti analoghi. Si legò, soprattutto, a un agronomo rumeno che, durante alcuni suoi soggiorni a Roma, venne un paio di volte a pranzo da noi, così come papà era stato ospite suo in una dacia sul Mar Nero.
Per mio padre questa villa sul mare era la prova inconfutabile che il comunismo nei paesi dell’Est Europa aveva instaurato una forma di giustizia sociale fondata sul merito e non, come era in realtà, sulla fedeltà al partito, tanto che i burocrati godevano di privilegi negati a tutti gli altri cittadini. Sarà che a me è sempre piaciuta la storia, ma come si fa a non sentirsi a casa, o almeno vicino casa, quando sul Tamigi vedi la statua della regina celtica Budicca che guidò la più grande rivolta contro l’esercito imperiale romano, quei romani che diedero a Londra il nome di Londinium?
Come sentirsi estranei a Budapest quando, davanti alle magnifiche arche funebri della chiesa napoletana di san Giovanni a Carbonara, scopri che il re Ladislao dei Durazzo- D’Angiò, un nome Ladislao che ricorre spesso tra i sovrani della Boemia, era pure re di Ungheria anche se là, di fatto, non aveva mai messo piede? Oppure in Andalusia, a Cordova, a Granada, a Siviglia davanti alle meraviglie costruite in quel miscuglio di stile che è l’arabo-spagnolo, non accorgerti che ti hanno già incantato a Palermo, nel Palazzo dei Normanni? Perfino a San Pietroburgo, che pure è Russia e la Russia non è la nostra Europa, quando passeggi in mezzo agli aristocratici palazzi progettati da architetti italiani e riconosci i segni del nostro linguaggio io mi sono sentita a casa mia.
No, non credo soltanto per la storia della mia famiglia. E’ che noi europei ci mescoliamo tutti da secoli. I tanti siciliani dai capelli rossi non sono ciò che resta della dominazione di Federico II di Svevia e della sua dinastia? E i biondi napoletani non discendono dal ducato longobardo di Salerno che si estese e dominò pezzi di meridione? E Torino, quando cammini in certi viali, non pare proprio Parigi? Considerazioni ovvie che oggi, come ci fossimo dimenticati del processo di globalizzazione che pure ci costringerebbe a unirci sempre di più, paiono dimenticate. Avremmo bisogno di una unione politica europea ma dopo il Trattato di Maastricht, fortemente voluto da Mitterand e Helmut Khol il 7 febbraio del 1992, a tre anni dalla caduta del Muro di Berlino che spaccando la città rallentava ogni processo unitario europeo, tutto sembra essersi fermato.
Abbiamo la moneta unica, la più diffusa nel mondo dopo il dollaro, possiamo passare da un paese all’altro senza essere ispezionati da occhiuti impiegati, molti di noi si trasferiscono dove trovano il lavoro che gli piace, mettono famiglia e fanno figli ma l’unione politica europea appare sempre più lontana. Siamo 510 milioni cittadini di 28 stati diversi di cui 340 hanno adottato l’euro ma egoismi nazionali, sospetti, referendum andati male, decreti i burocratici affannosi e arzigogolati piovuti come diktat dalla Comunità Europea sembrano aver arrestato questo sogno. La crisi finanziaria mondiale ha peggiorato le cose. La Brexit sta segnando l’uscita tormentosa della Gran Bretagna dalla Comunità.
A Visegrad, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria hanno deciso di fare fanno per conto loro. Ovunque crescono movimenti di destra, la Merkel sembra decisa a ritirarsi, Macron è assediato dalla protesta dei Gilet Gialli. Perfino in Andalusia, ora, s’è fatto avanti il partito Vox con un capo machista che non promette certo bene. E’ l’immigrazione incontrollata dai paesi poveri dell’Africa, dell’Asia minore, dell’Afghanistan che ha provocato questa svolta, sostengono alcuni. Sono le imposizioni che piovono dall’alto di Bruxelles da un parlamento eletto in maniera democratica ma costretto a legiferare su questioni limitate. Non so. Per me che mi sento europea è una tristezza. Non vorrei che a questa idea di Europa unita la maggioranza degli europei finisse per non crederci più.

Bambini con la bandiera europea per l’apertura della quarta Scuola Europea nella regione di Bruxelles. EPA/OLIVIER HOSLET
di Simonetta Robiony