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- Dicembre 10, 2018
Ancora non sappiamo come si svilupperà la vicenda politica, e lo scontro, dentro il Regno Unito intorno alla bozza di accordo (Withdrawal Agreement) con l’Unione Europea resa pubblica il 14 novembre. La lezione però è chiarissima.
L’Unione Europea, e al suo interno l’Eurozona, dovrebbe migliorare su tanti versanti. Dovrebbe essere in grado di prevenire e di affrontare i tanti elementi di instabilità sociale e di incertezza che, a dieci anni dalla Grande Recessione, la affliggono e la mettono in difficoltà.
E tuttavia non è la matrigna cattiva descritta con virulenza dai nazionalismi sbocciati dappertutto negli ultimi tempi. Alla prova dei fatti – come ha capito Tsipras qualche anno fa – si dimostra lo scenario migliore al confronto con qualsiasi alternativa. L’unico progetto dentro cui far crescere le nostre comunità in una fase storica di sfide globali sempre più complesse.
Oggi si chiama sovranismo. Io preferisco chiamarlo nazionalismo. Sarà un termine otto-novecentesco ma permette di capire che non è un fenomeno nuovo, è qualcosa che ha già procurato danni enormi nel corso della storia.
I nazionalisti sono d’accordo fra loro per picconare l’Europa. Con quale progetto, dopo, se non quello di sbranarsi a vicenda? Vedi il caso di Kurz, che Salvini vanta come importante alleato. E’ stato il primo a chiedere a Bruxelles sanzioni contro l’Italia per lo sforamento del deficit. Il nazionalismo è così: Salvini guadagna consenso cavalcando la paura per gli africani, nei paesi del nord i suoi alleati guadagnano consenso bastonando gli italiani.
Nel giugno 2016 il voto favorevole alla Brexit in una consultazione referendaria con elevata e inattesa partecipazione popolare fu giudicato dai nazionalisti come un grande evento, il punto di partenza per un’azione di sfondamento. Condivisero il giubilo molti beoti movimentisti. Una convergenza che non è finita lì: quelli italiani, ad esempio, oggi governano insieme ai nazionalisti.
Dopo il referendum il Regno Unito si diede un nuovo governo e aprì le trattative per il recesso dall’Unione Europea. A due anni e mezzo di distanza possiamo registrare due fatti.
Fatto n. 1
Il primo è semplicissimo. Il Regno Unito fra 1995 e 2015 era costantemente cresciuto più dell’Unione Europea, più dell’Eurozona, più della Germania. Per la prima volta dopo vent’anni la sua crescita economica è scesa sotto quella del resto d’Europa nell’ultimo biennio, dopo e in conseguenza del referendum e del suo risultato.
PIL. Tassi medi di variazione annua (Eurostat) |
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2000-2008 |
2008-2010 |
2010-2015 |
2015-2017 |
|
Eurozona |
1,8% |
-1,3% |
0,8% |
2,1% |
Regno Unito |
2,3% |
-1,3% |
2,1% |
1,7% |
Tutti gli studi di impatto sugli effetti della Brexit, istituzionali o indipendenti, prodotti da istituzioni accademiche o da società di consulenza, prevedono nel breve e nel lungo periodo meno crescita, meno occupazione, meno commercio estero, più inflazione, meno potere d’acquisto dei salari nel Regno Unito (vedi ad esempio un rapporto pubblicato da Institute for Government, un think tank moderato, dove vengono presentati e paragonati 14 studi di varia origine e metodologia: https://www.instituteforgovernment.org.uk/ publications/ understanding-economic-impact-brexit).
Richiamare questa letteratura è quasi superfluo: basta e avanza quanto registrato nei dati reali fra 2016 e 2017. L’aspetto paradossale è che le stime più elevate e pessimistiche sugli effetti negativi della Brexit sono quelle ufficiali, contenute nei documenti del Ministero del Tesoro di Londra e della Bank of England. Il governo brexiteer non può far finta di non saperlo, tanto che Philip Hammond, Ministro del Tesoro di Theresa May, ha affermato qualche giorno fa che «sul piano economico, qualunque sia l’accordo concluso con Bruxelles, il Regno Unito subirà delle perdite. La Brexit non è dunque una scelta economica, ma una scelta politica».
L’impatto negativo è conseguenza dell’elevata integrazione fra il sistema produttivo britannico e quello europeo; del dimagrimento molto probabile nell’industria finanziaria, che perderà il “passaporto” per operare con i paesi dell’Unione; delle incertezze nei rapporti con il resto del mondo.
Una delle più clamorose bugie della propaganda pro Brexit è stata di prospettare benefici derivanti dal recupero di autonomia nelle relazioni commerciali con i paesi terzi. Quanti anni ci vorranno, però, per negoziare nuovi trattati? E come può sperare UK, da solo, di avere un potere contrattuale superiore a quello di un mercato comune con 500 milioni di abitanti?
Intanto i documenti ufficiali del governo di Londra raccontano, ancora pochi giorni fa, preoccupazioni per questioni molto più banali: sono pochissime le imprese britanniche pronte a gestire le attività amministrative che deriveranno dal cambiamento e dall’aumento delle procedure doganali.
Fuori dall’Euro, dentro l’UE. L’alternativa britannica al modello tedesco
Una scelta politica, quindi. Una scelta da interpretare con chiavi diverse da quelle che Bill Clinton evocava quando spiegò la sua vittoria su Bush con la famigerata frase it’s the economy, stupid!.
Questo è un punto, però, che non può non suscitare curiosità, perché la scelta compiuta (un po’ controvoglia) da Blair a metà degli anni Novanta, di lasciare UK fuori dall’Euro ma saldamente dentro l’Unione e il mercato comune, si è dimostrata alla prova della storia una scelta vincente. Si guardi quanto accaduto fra 2010 e 2015, periodo durante il quale UK ha marcato il più alto distacco sui paesi dell’Euro: mentre l’Eurozona si avviluppava in una seconda recessione provocata da politiche ritardate e inadeguate, al di là della Manica si viaggiava sopra il due per cento all’anno anche grazie a più accorte politiche fiscali e monetarie.
L’aspetto che a me sembra più rilevante è che i caratteri del ciclo 1995-2015 di UK disegnano un percorso diverso, in qualche modo alternativo, rispetto a quello che nella stessa fase storica si è consolidato nell’Eurozona. Il motore è stato fornito dalla domanda interna e non dalle esportazioni: il Regno Unito non è stato contagiato dalla cultura mercantilista che la Germania non riesce ad abbandonare e che è stata imposta al resto d’Europa.
La differenza fra le strade percorse da Regno Unito e Germania è plasticamente descritta dal dato demografico. Nel 1995 la popolazione in Germania era di 81,3 milioni, a ventidue anni di distanza la troviamo quasi invariata, 82,7. UK parte nel 1995 da 58 milioni e arriva nel 2017 a 66. Il contributo preponderante viene dal saldo migratorio con ruolo crescente, e prevalente dopo il 2013, di quello intra-comunitario. Ne sanno qualcosa centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi dei paesi in crisi del Sud Europa.
Una crescita esuberante, che esprime i caratteri di una open society e i segni di un capitalismo meno regolato di quello che si affaccia sul Reno. Una crescita con un contenuto occupazionale superiore a quello tedesco (ed europeo), ma che non ha sacrificato la produttività del lavoro, aumentata in misura superiore o al più uguale in confronto alla Germania.
E’ superficiale ridurre tutto alla City della finanza globale. Il Regno Unito ha primati europei, e talvolta globali, nelle industrie culturali e digitali, nell’education, in tanti settori di ricerca scientifica e applicata. La sua bilancia dei pagamenti, come quella statunitense, è in attivo strutturale sui servizi mentre è sempre restata in passivo (nonostante le svalutazioni sull’Euro) sui beni.
La distruzione creatrice di Schumpeter ha mietuto grandi danni all’antico apparato industriale, senza che entrasse in funzione il meccanismo di ammortizzazione delle piccole imprese e dei distretti che ha salvato e innovato alcuni pezzi della base manifatturiera italiana. Tuttavia UK è restato leader in segmenti importanti delle industrie connesse a difesa e sicurezza, e anche nel maturo automotive ha mantenuto grazie agli investimenti dall’estero una base produttiva che, seppure inferiore a quella tedesca, ha superato quella italiana.
Crescita esuberante e società aperta. It’s capitalism, stupid!
Società aperta, capitalismo esuberante: di conseguenza crescita produttrice, nonostante i buoni risultati macroeconomici, di squilibri sociali e territoriali. Non c’è bisogno di scomodare Marx per capire che i capitomboli sono possibili, soprattutto se vengono dimenticati Keynes e Beveridge e se la politica, rinchiudendosi in esasperati tatticismi, apre lo spazio al nazionalismo. Verrebbe da dire, parafrasando Clinton, it’s capitalism, stupid!. Quello vero, quello di cui l’Inghilterra possiede non a caso il brevetto originale.
Gli squilibri macroeconomici emergono soprattutto dopo il 2010. Un segnale importante è la riduzione dei salari reali, cominciata nel 2008, interrotta nel ’14-’15 e ripresa poi dopo il referendum.
Tutti gli studi statistici che hanno cercato una correlazione fra presenza di immigrati e voti per il leave sulle ripartizioni territoriali non l’hanno trovata: un effetto ovvio del fatto che le zone che hanno votato leave sono quelle in declino o comunque meno dinamiche, mentre la nuova popolazione migrata risiede nelle aree territoriali in crescita. Ma l’esistenza di una relazione macroeconomica fra bacino delle forze di lavoro, influenzato dall’immigrazione, e salario reale in un mercato del lavoro molto flessibile come quello britannico non è affatto da escludere. Soprattutto quando l’immigrazione, per le crescenti quote intra-UE, si presenta su segmenti del mercato del lavoro con qualifiche intermedie e non soltanto su quelli a più basso contenuto professionale.
La distribuzione della crescita è stata molto disuguale. UK è storicamente un paese con elevati indici di disuguaglianza nei confronti internazionali. L’esempio più eclatante è quello delle disparità territoriali. In Germania, Francia e Italia il reddito pro-capite della regione più ricca oscilla fra 2,3 e 2,5 volte rispetto a quello della regione più povera (Germania: Amburgo-Mecklemburg; Francia: Ile de France-Languedoc Roussillon; Italia: Bolzano-Calabria). In UK (Inner London West-West Wales and the Valleys) la distanza è di circa 9 volte, una dimensione dei divari territoriali di reddito sconosciuta nell’Europa continentale, aumentata del 24 per cento fra 2000 e 2016.
Viene quasi da pensare che gli inglesi non abbiano votato contro l’Europa ma piuttosto contro Londra.
Fatto n. 2
Il secondo fatto è scritto nel Whithdrawal Agreement del 14 novembre, e più precisamente nel protocollo aggiuntivo riguardante l’Irlanda del Nord e nel testo della dichiarazione politica congiunta sottoscritta dalle due delegazioni.
L’iniziale baldanza da Britain rules the waves del governo brexiteer ha dovuto fare i conti con la realtà. Si è anche imbattuta in un’inattesa, e inedita, compattezza dei 27 paesi dell’Unione, fondata su due punti interamente politici e non economico-commerciali: la difesa dei diritti dei cittadini europei residenti nel Regno Unito e la priorità assegnata alla salvaguardia degli accordi del Good Friday, che hanno posto fine al conflitto nordirlandese ed eliminato le barriere fisiche sul confine fra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord.
I costi politici ed economici per il Regno Unito del ripristino di barriere doganali hanno prodotto un punto di caduta della trattativa che prospetta la creazione di un’area doganale comune fra UE e UK. I particolari di questa soluzione dovranno essere definiti durante il periodo di transizione (fissato alla fine del 2020, ma estendibile). In assenza di un accordo generale scatterà automaticamente una soluzione di sicurezza (backstop solution) che prevede un’area doganale comune fra UE e Irlanda del Nord.
Un’area doganale comune significa zero quote e zero tariffe per il commercio di beni UE-UK, mentre la questione dei servizi, compresi quelli finanziari, è ancora aperta e rimandata ai futuri negoziati. Significa perciò regolazione uniforme di tutto quello che influenza la competizione fra imprese: regimi di sussidio pubblico, regole della concorrenza, regole tributarie, standard sociali, standard ambientali, standard tecnici, diritti di proprietà intellettuale, regole di tracciabilità per l’origine dei prodotti e altro ancora, compresa la giurisdizione di ultima istanza della Corte Europea sulle norme di fonte comunitaria. L’area doganale comune consente poi, anche se non in via automatica, la permanenza di UK nei trattati internazionali UE con paesi terzi, riducendo un’altra delle componenti che pesano negativamente sui potenziali impatti negativi di Brexit.
Una soluzione, insomma, parecchio soft, a cui neppure i più ottimisti assegnavano qualche probabilità quando i negoziati ebbero inizio.
Una lezione, anzi due
L’Unione Europea, nonostante tutti i suoi difetti, resta l’opzione migliore e allontanarsene è costoso e rischioso.
Forse non riuscirà mai a mettere d’accordo e far convergere il modello anglosassone con quello renano. Ma è davvero necessario un modello uniforme, oppure la prevalenza di un modello egemone? In fondo negli USA dopo più di duecento anni persistono fra gli stati della federazione distanze significative nei profili sociali, culturali, giurisdizionali.
Questa è probabilmente un’altra lezione della Brexit. Un’Europa più coesa e integrata, più efficace nella salvaguardia degli equilibri sociali e capace di estendere il terreno delle sue azioni comuni, non deve rinunciare alla ricchezza delle diversità radicate nella sua storia.